Organetti e devoti scalzi per la Madonna del Pollino. Una festa tra gioia e sofferenza
di Giuseppe Rizzo
Ho compiuto solo due tratti del sentiero che facevano i madonnari del mio paese: località “Fornace” di Alessandria del Carretto-Terranova di Pollino, e Acquatremola-santuario: appena sei ore di viaggio a piedi. Mia madre e altri albidonesi ci mettevano due giorni e due notti. Bivaccavano nei boschi.
Questo mio percorso in “solitudine” l’ho fatto con una “riflessione” di Franco Alessandri, un amico fiorentino, che a 82 anni, si reca ancora a Santiago di Compostela. Eccola: “…l’esperienza e l’importanza religiosa, spirituale e sociale del pellegrinaggio, e come camminare in solitudine e con gli altri, arricchisce ciascuno di noi; ci fa scoprire noi stessi e la solidarietà umana”.
Alcune riproduzioni di questo pensiero “dell’altro pellegrinaggio” le ho distribuite al santuario del Pollino. Una copia l’ho data anche a un sacerdote che stava seduto davanti alla chiesa; credo che troverà un po’ di tempo per leggerla.
Questo sentiero a piedi lo faccio quasi in ogni anno. Leonardo, l’amico che veniva con me, è morto ancor giovane. Lo vorrei fare ancora. Credo che in agosto ritenterò la scalata del Dolcedorme. Questo sentiero a piedi lo potrebbero conoscere anche gli altri; compresi gli amici che hanno proposto un loro progetto “Sentieri della fede”. Ma perché si cerca di evitare i “Sentieri dei briganti” ? Credevano di… credere anch’essi alla Madonna, la cui immagine fu trovata nelle loro tasche, dopo la fucilazione.
Però, il pellegrinaggio in lussuose macchine, e forse anche in pullman, sarà pure necessario, ma non si tiene conto di queste due componenti: la conoscenza del proprio territorio (la natura, il paesaggio, gli ultimi contadini che ancora vivono e lavorano in quelle solitarie contrade) e la propria fede. Se sono veri credenti, li dobbiamo rispettare.
Ma quelli che si dicono sicuri di avere la fede, e anche quelli che si sposano in chiesa e poi si esibiscono come “atei” e “laici”, si leggano, almeno, il versetto del vangelo di Marco (9:22,25). Le manifestazioni esteriori della fede non sono sempre sincere, ma sono anche folkloristiche. Però, il vero folklore è autentica cultura popolare: e anche questa dobbiamo conoscere e conservare.
Venerdì mattina (29 giugno), quando ho imboccato il sentiero della “Fornace”, ho guardato subito le montagne del Pollino: mi hanno dato gioia e forza fisica. Ma questo pezzo di strada si potrebbe pure riparare ! Scompariranno anche l’ultimo pastore e quei pochi contadini che chiedono invano una pista sterrata, acqua e luce. Nella discesa di “San Migàlio” è arrivata qualche gocciolina di pioggia, ma sono giunto tranquillamente alla passerella della fiumara “Sarmento”. Nella campagna di “San Migàlio” era nato il contadino Giovanni Labanca, che poi divenne brigante, per la disastrosa “condizione sociale dell’800”.
Sento odore ti timo e di origano: il sentiero è ornato di fiori bellissimi. Il grano e l’avena sono quasi già maturi. I pellegrini che vanno a mangiare carne e a bere fiaschi e fiaschi di Bacco non riescono ad apprezzare queste cose di nostra “madre Terra”: forse non hanno mai letto il “cantico” di Francesco d’Assisi ?
E’ bello il silenzio; però mi rincuora una solitaria presenza umana: un’anziana contadina che scarica acqua nell’orto, mi dice che la salita asfaltata che giunge alla statale 92 si chiama “u piètt’i Ttàvio”; poi, sorridendo aggiunge: “… va chiànu chiànu, cu ll’aiùte d’a Madònna !”
Nella piazzetta di Terranova prendo un caffè caldo, con i vecchi amici del paese. Presso la fontana di “Acquatremola” faccio una frugale colazione con i due giovani Pasqualino e Vincenzo, i quali mi aspetteranno al santuario, con la “panda 4 x 4”. La bottiglia di vino è quasi finita, però, mi ha dato fiato. Finalmente, mi trovo davanti al santuario, che svetta bellissimo, sulla bianca roccia, nell’immenso verde del Pollino.
Assisto a un grande e allegro baccano; con canti e suoni di organetto e zampogna. Mi disgustano le centinaia di auto e trattori incastrati tra i giovani faggi scorticati e “sbrancati”. Vedo tantissime tende di “pellegrini” che rivoltano spiedi di capretto. Il fumo nasconde i visi degli allegri ubriachi. Qui si mangiano anche squisiti spaghetti, col sugo di gallo ruspante. Vado diritto ad abbracciare i miei amici della zampogna: Andrea Miraglia e Antonio Propato di Viggianello: i “zafarani” e il “coniglio alla cacciatora degli amici pedalesi farebbero gola anche ai nostri avi digiunatori della Quaresima ! Incontro Matteo Dodaro di Rende, e tanti altri che sentirò suonare per tutta la nottata. Qui non si può dormire ! Passa il gruppo di Cristina Libonati, rivedo Daniele Marone (di Scanzano) e ancora altri maestri: il lagonegrese Biagio Perciante e Carlo Cosenza, che suonano con la zampogna del costruttore Amedeo Cannazzaro; la squadra dei giovanissimi albidonesi Pasqualino Grizzuti, Leonardo Rago (Sc/chìquele), Michele Filazzola e Daniele Adduci; Sandro Brunacci di Alessandria, Zaccaro e ancora altri. Altra novità ? La zampogna la suonano anche i preti e le donne ! .
Sono tutti bravissimi: la zampogna non morirà; ma non si deve trascurare la piccola “surdulìna” ! Davide Leone, da Roggiano Gravina, e frequentatore della Madonna del Pettoruto, dedica una canzone pure alla Madonna di Pollino. Davanti alla statua suona anche il giovanissimo musicista Leo Antony Napoli. Invece, la folta squadra dei briganti di Francavilla in Sinni (il paese del brigante Antonio Franco) ricorda la brigantessa Serafina Cimminelli. Ecco l’altra cultura che bisogna conoscere ! La ragazza che suona il tamburello e balla in mezzo agli altri suonatori mi dice: “Io non sono una pellegrina”. E la bella moranese Marianna suona un altro tamburello e balla una stupenda tarantella: mi ricorda la “pecorara” di Norman Douglas; ne parla nella sua “Old Calabria”. Nella chiesa vedo i vecchi rituali: i suonatori salutano la Vergine del Pollino con la canzone di “zu’ Peppìno e Antonio Propato”. Mi affaccio al dirupo, dietro il santuario e sento un altro dolcissimo suono. Penso che sia la cornamusa scozzese, ma vedo una ragazza bellissima, seduta proprio sulla roccia più sporgente della montagna; scatto una foto e la saluto: si chiama Serena, ed’è venuta da Salerno, con Annalisa, Nicolas e Antonio.
E’ dal 1975 che racconto “l’evoluzione” di questa grande festa del Sud. Oggi voglio “indagare” soprattutto su quelli che vengono da lontano: infatti, oltre a Mauro di Montescaglioso, c’è anche il giovane Arnaud, del Belgio: suona con la zampogna del costruttore Leonardo Riccardi (di Terranova). Vedo che altre zampogne sono uscite dalle mani del vecchio Leonardo Lanza, di Pino Salamone e del mio compaesano Leonardo Rago, deceduto all’inizio di quest’anno. Francesco Rusciano non suona più la “surdulina”, ma la zampogna di due palmi e mezzo. E’ più anziano di me, ma anche lui si è fatto un breve tratto a piedi: “per la Madonna di Pollino”.
Durante la notte si suona, si mangia e si canta: il troppo vino può provocare anche una scazzottata. In qualche capanna a telone ho potuto osservare anche il vecchio “incubatio”, già menzionato dagli antropologi. Finalmente, hanno eliminato “l’incanto della statua”, in cui, i concorrenti dei vari paesi si guardavano in cagnesco e alzavano il prezzo per vantarsi del primato.
No; questa festa non è solo un “pic-nic in onore della Vergine”, come scrive il Douglas. Anche quest’anno, ho visto cose che rattristano: genitori che portano figli malati e che sperano di ottenere guarigione. Grande emozione per quella signora col “cirio” sul capo e con piedi scalzi. Davanti alla grotta, dove sarebbe apparsa la Vergine del Pollino, incontro un altro pellegrino che suona il tamburello con le mani tremanti, e canta, quasi piangendo: “O Madònna d’u Pullìno, a gràzia chi tt’agg cercàta, sùle tu mi ll’àia fa !” Le donne di Lauria salutano la Madonna con una loro antica e commovente canzone popolare. Sì; questa è ancora la festa della sfrenata allegria e della grande sofferenza.