L’Oriolo di Felice Bonamassa: tra ricordi del passato e speranze del futuro
Ospitiamo una recensione di “Frammenti di vita nella nostra terra. Gli anni Sessanta nell’Alto Jonio”, il libro di Felice Bonamassa, originario di Oriolo, di cui abbiamo dato notizia nei giorni addietro. La recensione è scritta da un giovane studente di Oriolo, frequentante il III Liceo Classico – Polo Liceale di Trebisacce.
di Francesco Maria Maiuri – Thomas Hobbes, il celebre filosofo del corporeismo meccanicistico seicentesco, autore, tra l’alto, del Leviatan, affermava che il saggio non fosse l’erudito, l’accademico o il dotto, bensì, colui che sapesse scrutare il cuore dell’uomo. Quando Felice Bonamassa esordisce nella sua opera, fatta di immagini, ricordi, episodi e sentimenti della sua terra natia (l’Alto Ionio Cosentino degli anni ’60 del Novecento), dalla quale, a malincuore, si separò giovanissimo per ragioni di studio, sembra dir proprio questo: Non intendo descrivere e spiegare da storico, sociologo, pedagogista o da antropologo.[…] Il mio semplice racconto è volto alla miseria, alla povertà e all’analfabetismo della mia povera gente del mio paese. Con questa icastica propositio inizia un’opera raffinata ed intrigante (Frammenti di vita della nostra terra. Gli anni Sessanta nell’ Alto Jonio, Felici Editori, 2024 ), che si struttura e dispiega in una sorta di continui quadretti narrativi, i quali non forniscono solo aneddotiche curiosità appagate di un tempo ormai lontano, ma costituiscono una vera e propria catena di exempla, che si intarsiano intorno alle figure di uomini e di donne conosciute o solo sentite nominare da persone vicine all’autore, tanto da fornire un incisivo dittico, in cui vizi e virtù di un tempo remoto sono lucidamente passati in rassegna e raccontatati con un’ acribia narrativa che accomuna il Bonamassa alle narrazioni di Valerio Massimo. Dunque, un racconto, sì, personale, legato soprattutto a quei volti, mirabilmente e straordinariamente ancora serbati in memoria, dell’Oriolo del miracolo economico, dal sarto all’oste, fino al preside ed al politico, ma, al contempo, anche generale ed evanescente, in quanto la vis narrandi dell’opera consiste proprio in quella spinta centrifuga, che porta l’occhio del lettore dal particolare all’universale. Gli anni Sessanta, il tempo della ripresa e della contestazione, il periodo della caduta di un ancien regime culturale e dell’edificazione di nuovi schemi sociali e valoriali, irrompono, anche se in maniera alonata e tenue, in una Oriolo che si scontra tra il rigidismo anacronistico di una cultura gerarchica e subordinante e la spinta delle nuove idee e dei nuovi modi di vivere.
Leggendo il libro, infatti, sembra di irretirsi in un vecchio mondo, così disuguale e dissimile, che, anche se privo delle moderne comodità e delle conoscenze di oggi, nessuno oserebbe deprecare o mistificare, ma, alla luce del cuore, ognuno dei coscritti di Felice e delle generazioni che hanno visto, amato od odiato quei visi e quegli schemi proverebbe nostalgia: è la forza del rimembrare. Dunque, quello che Bonamassa fa è un sublime esercizio di ricordo, inteso nella radice latina del termine, che implica il sostantivo cor (cuore ), nel senso che ciò che si è citato o narrato si compendia e suggella in un atto d’amore verso la propria terra, ma, ancor di più, verso un tempo, una stagione della vita ormai volata. Ecco che la semplice narrazione, discorsiva e paratattica degli episodi di personaggi ormai trapassati, diventa un moto interiore, quale uno slancio vitale verso la giovinezza in sè, un’età distante e passata che ha impresso il suo ricordo nel cuore, non solo di Felice, ma, in generale, di ogni uomo. E’come se l’autore proponesse quei sentimenti propri del Leopardi che, colmo del suo pessimismo storico, vedeva, alla stregua dei romantici europei, nella fanciullezza e nell’adolescenza, l’incontaminato impeto vitale privo dell’esperienza della terribile e maestosa epifania dell’arido vero che tutto annichilisce. Sarà chiaro, in tal guisa, comprendere che il libro non va, dunque, letto in chiave marxista, come esplicazione sociale di una subordinazione di strutture fondamentali, bensì, in chiave idealistica: l’intera opera, le rimembranze, le riflessioni di Felice sono la proiezione di un io che si autopone in modo da creare il ricordo e l’intera narrazione.
Tutto questo, però, non deve far incorrere nella convinzione che il testo sia un inutile tentativo di aggrapparsi a quello che ormai non è più, ma come un’ulteriore spinta vitale verso il futuro. Da esercizio di ricordo il Bonamassa elabora un esercizio di speranza. Nella nostra società, abituata alle cose piccole , che non sa inerpicarsi in un audace sentiero spirituale e morale, come quello dell’autore, non può esserci alcuna speranza per chi, disponendo di tutte le illusioni che l’odierna strumentalizzazione informatica ci propone, fonda il proprio futuro solo su tali basi, che si riveleranno come la sabbia di Mt 7, inconsistente e distruttrice. Bisogna capire, e l’opera è un ottimo veicolo per farlo, che, come scriveva Petrarca nei Rerum memorandarum libri, il vero uomo, completo e sapiente (non intelligente), è simul ante retroque prospiciens, ossia chi sa unire la memoria al desiderio dell’avvenire. Un momento salvifico è dunque l’incontro tra il passato e il presente; un incontro di cui – come sostiene il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, nella sua prefazione – il lettore deve essere riconoscente all’autore, perché ha ammonito che il passato offre all’uomo del nostro tempo quel tucidideo possesso perenne liberante. Nel filo del tempo che riunisce, a detta di Ivano Dionigi, i trapassati e i nascituri; in questa eredità di affetti foscoliana, sempre antica e sempre nuova, sta il ringraziamento di Oriolo e di tutti i suoi cittadini verso un atto di pietas sincera ed amorevole.
Oriolo, il paesello da lui tanto amato, si trasfigura e diventa effige e cardine di gratitudine, non tanto verso un determinato contesto storico, sociale e geografico – quale può essere e sembrare – quanto verso i testimoni che ha offerto: gli uomini e le donne esemplari che hanno contribuito ad arricchire, anche se di poco, l’autore e, in generale, tutti e ciascuno. Anche Marco Aurelio, all’inizio dei suoi Tà eis heautón (Τὰ εἰς ἑαυτόν, ndr), ricorda e ringrazia per nome, ad uno ad uno, tutti coloro che lo hanno aiutato e formato. Il libro di Felice Bonamassa non può arrecare frutto più proficuo e liberante di questo: la gratitudine; consapevoli ,come scriveva Elias Canetti, che è solo questa che riempie i cuori come boccali colmi e traboccanti, perché un cuore che ama è un cuore sempre giovane e mai vecchio.
Complimenti, ammirato e orgoglioso di te. Mi piacerebbe averne una copia del libro