Fase 2. Niente lamentele e rispetto delle regole. Non meritiamo il “rompete le righe”

Proviamo un attimo a spostare l’attenzione non tanto sulle direttive comportamentali che ci sono state impartite nei vari Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri che si sono susseguiti in queste settimane, ma sull’effettivo rispetto delle stesse. Tanti hanno lamentato, soprattutto sui social, comportamenti scorretti e spesso non sanzionati. Quanti video su facebook che ritraevano e ritraggono assembramenti. Quanti rientri nella propria regione nonostante la “chiusura”. Quante messe celebrate con la presenza di fedeli. Quanti assembramenti nei supermercati, sui lungomari. Quanta gente a passeggio senza motivo e senza mascherine. Quante pasquette e quanti 25 aprile abusivi. Alla luce di tutto ciò, in un contesto di caos organizzato dove a rispettare le regole è sempre e comunque la minoranza, appare davvero inconcepibile pretendere ed esigere una manica ancora più larga di quella già prevista dall’ultimo DPCM presentato in conferenza stampa dal premier Giuseppe Conte e valido dal 4 al 18 maggio.
I comportamenti visti in queste settimane non meritano assolutamente un “liberi tutti”. Questa ingiustificata pressione a ritornare alla normalità, ha spinto gli addetti ai lavori ad inserire nell’ultimo decreto alcune goffe libertà, come il bagno a mare per chi abita in luoghi marini o l’attività motoria sino a 200 metri da casa, che altro non sono se non segnali di distensione che lasciano il tempo che trovano. Le libertà sono altre. Se in queste settimane tutti gli italiani avessero dimostrato maggiore senso del dovere (senza uscire di casa per comprare un pacco di spaghetti ed un spicchio d’aglio un giorno; il latte un altro giorno; e le fragole un altro ancora) probabilmente il Comitato Tecnico Scientifico, notando un ulteriore decremento del contagio, avrebbe segnalato al Governo di allentare ancor di più la corda. Ma questi comportamenti superficiali hanno danneggiato anche chi, e sono tanti, stanno rispettando le regole con grande senso del dovere.
Tra i tanti punti discussi del DPCM ce n’è uno in particolare che necessita di maggiore attenzione e cioè quello relativo al rientro di chiunque nella propria residenza, naturalmente comprese quelle persone che oggi si trovano in Lombardia, Piemonte, Marche, Emilia Romagna e che avranno così la possibilità di ricongiungersi con i loro cari. Al momento nel testo dell’atto amministrativo non si fa riferimento a nessun accorgimento particolare da dover seguire, come ad esempio la quarantena. Ma nei prossimi giorni sono previste delle FAQ (ulteriori chiarimenti) per meglio comprendere questo aspetto che potrebbe essere davvero uno spartiacque nella gestione dell’emergenza sanitaria, soprattutto per le regioni meridionali. Un discorso a parte merita, invece, la diatriba tra Governo e Cei a cui abbiamo assistito in queste ore e alla quale, mi auguro, il Papa con le sue parole di oggi (martedì) ha messo fine: «In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni». Una mediazione necessaria quella del Santo Padre in seguito al duro intervento della Cei che rimproverava al Governo il protrarsi delle messe senza popolo e che aveva indotto non pochi fedeli ad imbracciare le armi del touchscreen dello smartphone per rivendicare un diritto al culto che mai è venuto meno. L’intervento del Santo Padre è risultato di una gentilezza e di una intelligenza unica a tutela dello stesso diritto del libero culto ed in questo caso di quello legato al Cristianesimo.
Il testo della CEI è duro, aggressivo, in alcuni tratti davvero sopra le righe, almeno quando esprime due concetti. Il primo: «la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale». Il secondo: «La Chiesa è chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia». Questi due concetti in uno stato laico, immaginato e disegnato dai nostri padri costituenti (tra cui i democristiani De Gasperi, Colombo, Fanfani per citare quelli noti ai più) possono apparire fuori luogo. La Chiesa non può esigere, pretendere, ma deve esclusivamente donare. E tanto meno può rivendicare autonomie non avendo, in questo caso, competenze sanitarie riconosciute. E poi, diciamocela tutta, non è bello, agli occhi dell’Europa e del Mondo che Stato e Chiesa litighino tra loro dopo che incontri privati e tavoli di mediazione si sprecano. Mai come in questo periodo storico, il Paese ha bisogno di unità. Le parole di stamattina di Papa Francesco sono di una laicità disarmante. Questa laicità pensata durante la Resistenza serve a tutelare proprio quel diritto di culto, non solo in chiesa, nelle moschee, ma dappertutto. In ogni casa e in ogni piazza. Poi certo, la messa domenicale con l’Eucarestia rappresentano il fulcro della fede di un cristiano che, mediante l’esercizio della libertà di culto, rafforza il proprio legame con il Signore. Ma che libertà di esercizio del culto sarebbe quella di assistere a scaglioni ad una Santa Messa; distanziati e isolati nei banchi; attrezzati di guanti e mascherine. Queste condizioni andrebbero davvero a limitare la libertà nel culto. Tanti sacerdoti e vescovi, in Italia, in queste settimane, con grande sacrificio riescono a mantenere unite le comunità religiose, cercando attraverso i mezzi a loro disposizione di regalare messaggi di speranza, un toccasana soprattutto per gli anziani. Ecco che questo patrimonio di nuova pastorale, di una pastorale di sacrificio non deve essere sporcato da pressioni e polemiche che non appartengono a questa realtà.
Vincenzo La Camera
Complimenti per l’articolo. Lo trovo molto sensato e puntuale